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L’elmo di Giosuè. Due ipotesi ricostruttive.

Ricostruire un oggetto del passato, spesso equivale a un gioco di incastri.

Un gioco al quale abbiamo voluto giocare anche noi, nel ricostruire due elmi partendo da un’immagine.

Ma prima di spiegarvi cosa abbiamo fatto, facciamo prima un passo indietro.

L’ipotesi ricostruttiva

Quando bisogna ricostruire un manufatto antico, possiamo normalmente fare affidamento su oggetti reali: i reperti che ci consegna l’archeologia.

Tuttavia, capita che questi oggetti ci siano giunti così frammentari da rendere difficile capire come fossero fatti in origine.

Oppure a volte succede che, guardando un’immagine prodotta secoli fa, si veda un oggetto non chiaramente distinguibile, di difficile interpretazione.

Un oggetto che scatena la domanda: “Ma com’era fatto?”

È a questo punto che entrano in campo i professionisti della Storia. Gli unici che sappiano operare quel gioco di incastri che è l’ipotesi ricostruttiva.

Cioè?
Fare un’ipotesi ricostruttiva significa incrociare i dati a disposizione e le evidenze archeologiche, scritte, visive, di quel periodo storico, per tentare di ricreare (come illustrazione o come oggetto reale) quell’oggetto così frammentario, quell’immagine così indecifrabile.

Un processo che viene svolto abitualmente da storici e archeologi, delicato e difficile, che può essere messo in campo solo dopo aver acquisito specifiche competenze e dopo ore di studio.

E che può essere svolto solo con la consapevolezza che il risultato finale non sarà la verità, ma solo una delle interpretazioni possibili.

Quest’ultima premessa è fondamentale per capire come, da una sola immagine, siamo riusciti ad elaborare ben due elmi.

Vi spieghiamo come abbiamo fatto.

Un’immagine da decifrare: la terracotta di Vinicko Kale

La rievocazione storica è fatta di studio e ricerca: due attività che mettono in contatto diretto studioso e rievocatore con le fonti antiche.

Una di queste, in particolare, un giorno ha attirato la nostra attenzione.

Una piccola tessera di terracotta, datata al VI sec. d.C., proveniente dal forte romano di Vinicko Kale, in Macedonia.

La figurina umana sulla sinistra ha un nome scritto vicino alla testa, e sembra indicare un sole. Grazie a questi dettagli riconosciamo subito i personaggi e la scena.

Si tratta di un celebre episodio dell’Antico Testamento. L’uomo raffigurato è Giosuè (HIESV, nell’iscrizione della terracotta), che ordina al sole di fermarsi sopra Gabaon.

Si tratta di un episodio che viene raffigurato moltissime volte nell’arte del VI-VII sec. d.C.

In gran parte dell’arte tardo antica e medievale, i personaggi biblici erano rappresentati vestiti alla moda e con gli armamenti dell’epoca contemporanea agli artisti.

Siamo quindi piuttosto certi che Giosuè e la seconda figura sulla terracotta di Vinicko Kale siano rappresentati come due soldati romani del VI-VII sec. d.C.

Molti sono gli elementi interessanti dell’equipaggiamento dei due guerrieri. Ma in particolare, sono gli elmi ad attirare la nostra attenzione.

Vediamoli più nel dettaglio.

Si notano immediatamente alcune caratteristiche interessanti.

La calotta è tondeggiante, e sembra essere divisa in due. A difesa del volto, si vedono due paragnatidi (le protezioni per le guance) e una protezione nasale.

Infine, due strani cornetti spuntano dalla calotta.

Che elmi sono? Un bel grattacapo. Nessun elmo del VI-VII sec. a noi noto da reperti archeologici è fatto così.

Tuttavia, la cosa non ci ha spaventato. Avevamo infatti abbastanza elementi per tentare non una, ma due ipotesi ricostruttive.

Vi mostriamo il processo che abbiamo seguito per realizzarle.

L’elmo di Giosuè. Le nostre ipotesi ricostruttive

Analizziamo una per una le caratteristiche che abbiamo elencato poco fa.

La calotta tondeggiante divisa in due pezzi sarebbe una caratteristica tipica degli elmi ad arco, una famiglia di elmi caratteristica della tarda antichità. Tuttavia, a livello archeologico tali elmi sembrano scomparire dopo il V secolo.

Fortunatamente avevamo altri due possibili candidati: un elmo da un’ignota località dei Balcani, e un elmo dall’Egitto, entrambi datati al VI-VII sec.

Entrambi sono anche dotati di paragnatidi. Un elemento che li rende somiglianti ai due elmi della terracotta.

I due elmi costituiranno la base perfetta sulla quale costruire l’ipotesi ricostruttiva dell’elmo di Giosuè.

Sulla sinistra, l’elmo dai Balcani; sulla destra, l’elmo egiziano, ora al Brooklyn Museum.

Il nasale non è presente sui nostri due elmi. Sono inoltre pochissimi gli altri elmi di questo periodo che sembrano presentarne uno.

Abbiamo forse visto male nella nostra terracotta macedone? Plausibile.

Tuttavia, non ci scoraggiamo: gli scritti degli studiosi puntano nel vederli, come abbiamo fatto noi. Inoltre, sembrano comparire su altri elmi, per quanto di forme diverse, da alcune fonti iconografiche del periodo.

Per cui, li aggiungeremo alle nostre ipotesi ricostruttive. Per non fare azzardi troppo grandi, ci limiteremo a realizzare due nasali di forma piuttosto generica, ma ispirati ad altri modelli tardo antichi.

Sulla sinistra, dettaglio da uno stampo da fusione da Cordoba (Spagna); a destra, interpretazione grafica del cavaliere del piatto di Isola Rizza (Verona).

Manca ora l’elemento più spinoso e difficile: i due cornetti.

Cosa possono essere?

Senz’altro non corna. Nessun elmo di questo periodo storico aveva una tale caratteristica.

Siamo tuttavia a conoscenza di altri elementi che decoravano gli elmi dei soldati di questo periodo: creste e cimieri.

Ecco che l’immagine diventa chiara! Il cornetto superiore potrebbe rappresentare una cresta! La aggiungeremo ai nostri due elmi.

Il cornetto superiore…e l’altro?

Difficile dirlo. A volte anche nelle ipotesi ricostruttive gli esperti si fermano, dicendo umilmente “non lo so”.

Abbiamo deciso di farlo anche noi.

Per uno dei due elmi abbiamo deciso di lasciare solo la cresta.

Tuttavia, per l’altro elmo abbiamo voluto fare un passo più in là. Abbiamo voluto azzardare un’ipotesi.

Avete notato che in una delle fonti iconografiche che vi abbiamo mostrato prima, uno degli elmi sembra presentare una specie di “coda”?

Potrebbe essere un paranuca. Ma potrebbe anche essere qualcos’altro.

Sappiamo che gli ufficiali romani del VI secolo decoravano le loro creste con un ciuffo di crine di cavallo.

E Giosuè, che era il capo militare di Israele, non può che essere un ufficiale…

Ecco l’ultima tessera del puzzle: il cornetto inferiore potrebbe essere la coda in crine. La aggiungeremo al secondo elmo.

Il puzzle è completo. Dopo un bel lavoro di ricerca, finalmente le ipotesi ricostruttive sono pronte.

Il risultato finale

Certi lavori non si possono svolgere senza un aiuto – che dovrebbe essere il sale della ricerca e della rievocazione storica.

In questo caso, ci siamo voluti appoggiare all’esperienza artigiana di Res Bellica, che ringraziamo, per la realizzazione di questi due elmi.

Una buona esperienza nelle tattiche militari: a caccia nel tardo antico

Worcester Hunt Mosaic – VI secolo – da Antiochia e conservato a Worcester, Massachussets

Tra le attività prescritte ai soldati romani tardo antichi, la caccia rivestiva un ruolo di grandissima importanza. Maurizio, imperatore romano autore dello Strategikon, dedica all’approfondimento dell’aspetto venatorio un intero capitolo del suo celeberrimo manuale.

Il Basileus, sin dalle primissime battute, ne spiega il perché in maniera cristallina: la caccia, infatti,

“Non solo stimola la mente e mantiene in esercizio i cavalli, ma fornisce loro
[i soldati] una buona esperienza nelle tattiche militari, che è necessario acquisire attraverso una pratica costante esercitata nei periodi più adatti e
convenienti dell’anno”

Con la precisione che contraddistingue l’autore, la caccia viene sviscerata in tutte le molteplici fasi che caratterizzano una battuta tipo. Anzi, nulla viene lasciato al caso: dalle pagine dello Strategikon leggiamo, ad esempio, che il merarca (ufficiale a comando di un meros, unità la cui entità poteva variare da un minimo di 2.000 a un massimo di 3.500 soldati) deve ricevere i rapporti degli esploratori prima di schierare i suoi uomini.

Sebbene il capitolo suggerisca che l’attività venatoria fosse per lo più prerogativa dei reparti a cavallo (caratteristica più volte ribadita, grazie anche ai parallelismi dedotti dai popoli delle steppe, “Sciti” in primis), vale la pena soffermarsi su alcuni suggerimenti formulati appositamente per i fanti.

I partecipanti, nel giorno della caccia, dovevano infatti equipaggiarsi alla leggera. Il basileus suggerisce l’utilizzo dell’arco, arma che anche nella prassi bellica tardo – antica conobbe grande fama: Procopio di Cesarea, storico che ci ha tramandato un puntuale resoconto sulla guerra greco – gotica, ricorda la bravura e la perizia dimostrate da Belisario durante l’assedio di Roma.

Come riscontrabile anche in altre parti dello stesso Strategikon, a coloro che, tra i militari, presentassero poca pratica e dimestichezza nell’arceria era prescritto l’utilizzo della lancia. Costoro, indipendentemente dall’arma adoperata, erano sicuramente dotati di scudo che veniva utilizzato per creare una sorta di “barriera” così da evitare la fuga della cacciagione più minuta.

Questi aspetti, uniti alla cura certosina nella descrizione delle formazioni, ci aiutano a comprendere quanto le battute di caccia diventasse, a tutti gli effetti, una simulazione della battaglia.

La funzione propedeutica all’arte bellica si può particolarmente apprezzare dalla precisione (numero e profondità delle colonne, ad esempio) in cui vengono illustrate le formazioni più ottimali da adottare. A balzare subito all’occhio è la grande mobilità raccomandata alle ali dello schieramento.

Queste ultime, all’occorrenza, possono tanto convergere al centro, quasi a formare una mezzaluna, quanto staccarsi dal centro della formazione stessa.

La caccia, tuttavia, non era solo una attività organizzata per tenere in addestramento le truppe e, come si può immaginare, per non indifferenti fini di rifornimenti alimentari. La pratica, come ribadito da Maurizio, poteva assumere infatti anche una ulteriore valenza, di fondamentale importanza per rinsaldare lo spirito di corpo.

L’Imperatore, nel descrivere le modalità per la distribuzione delle prede, prescriveva che quanto ottenuto fosse ripartito equamente tra i reparti “affinché tutti vengano maggiormente indotti ad apprezzare il lavoro in comune”.

La necessità di mantenere la coesione tra reparti primeggiava, infatti, tra i compiti principali che un buon comandante doveva tenere in considerazione.

L’esercito romano descritto dallo Strategikon, nonostante si barcamenasse con fortune alterne tra le sfide che lo videro operare ai principi del VII secolo, perdurava ancora nella sua natura di organismo efficiente, capace di soddisfare con apprezzabile perfezione alcuni aspetti tipici dell’attività militare, quali l’edificare un accampamento o sviluppare sul campo di battaglia variazioni di formazione vieppiù complesse.

Queste esigenze, com’è logico attendersi, erano ottenibili solo mediante un costante e puntuale addestramento, necessario affinché ogni cellula di questo organismo, dall’ufficiale al semplice soldato, imparasse a muoversi all’occorrenza, nel momento più opportuno e, soprattutto, a fidarsi del proprio commilitone. L’affiatamento, sebbene non venga mai espressamente menzionato, è forse la conseguenza più importante che le armi romane potevano trarre dalla costante pratica dell’attività venatoria.

Mosaico della grande caccia da Apamea, Siria, prima metà VI secolo

Romans Langobardorum: il Natale del Numerus

Da qualcosa si inizia sempre

Cosa ci fanno due liguri, un veneto e un mezzo polacco a metà maggio nel profondo Nord–Est della Penisola? Sembra l’inizio di una barzelletta. La domanda, in realtà, ci porta indietro di qualche anno. A essere precisi, al fine settimana del 21 e 22 maggio del 2016. Ma, come ogni storia che si rispetti, anche la nostra proviene da lontano. Per narrarla, bisogna varcare gli Appennini e giungere a Varese Ligure, dove tutto iniziò forse per puro caso. Con il senno di poi, tutto fuorché a caso.

Varese Ligure, a.D. 2015

Prima ancora che bizzy e tardo – romani, la maggior parte di noi nasce rievocativamente nel Duecento (tranne l’iconica figura di Zvonco Drugovic. Ma, sì sa, i miti rimangono sempre tali anche se non sono “medievali”). Tra una birra e una chiacchiera (con occhio retrospettivo, è effettivamente vero: le decisioni migliori nascono in presenza di una bionda), alcuni di noi cogitarono la seguente e malsana considerazione. La rievocazione storica è sì bella, ma lo diventa ancora di più se, in mezzo, ci mettiamo ulteriori ostacoli. Fondare una associazione ex novo, ad esempio. Oppure, come nel nostro caso, lanciarsi in una periodizzazione storica non ancora sufficientemente coperta da riproduzioni moderatamente accettabili.

D’altronde, che cos’è il genio se non fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione? Ecco: nel Numerus primordiale c’era ben poca presenza di queste qualità. Abbondava, tuttavia, della sana e goliardica spensieratezza: qualcosa, tra una bevuta e una processione improvvisata per le viuzze di Varese ligure (ma questa è davvero un’altra storia), avremmo trovato per strada. Tipo, aspetto tutto fuorché indifferente, trovare delle uscite cui partecipare.

Niente succede per puro caso

Il nostro racconto si deve necessariamente spostare a Venezia. Non tanto per l’importanza che il centro lagunare ha rivestito nella storia bizantina, bensì per la centralità che le calli veneziane hanno assunto per le successive vicende del Numerus. È infatti qui che, forse grazie all’intercessione delle divinità della rievocazione, ci mettiamo a contatto, grazie a Nicola Bergamo, con Matteo Grudina. Un giro di chiamate ed era fatta: il Numerus aveva incontrato Romans Langobardorum.

O, ritornando agli inizi di questo articolo, due liguri, un veneto e un mezzo polacco decisero di recarsi, un fine settimana di maggio, nel profondo nord – est.

Le prime volte non si scordano mai

Sì, va bene: le frasi fatte non riscontrano mai un grande successo. Eppure, nel nostro caso, mai nessuna assunse un significato così profondo. Perché, in definitiva, risulta dannatamente vero: le prime volte non si scordano mai.

L’edizione del 2016, quarta in assoluto della manifestazione, rappresenta i nostri inizi. O, per dirla in maniera più aulica e decisamente “epica”, costituisce i Natali del Numerus. Col senno di poi, non potevamo davvero attenderci primi passi così spettacolari. Romans, in fin dei conti, figura tra i principali eventi dedicati al tardo – antico in Italia. Parteciparvi, sebbene alle spalle avessimo solo qualche mese di attività, funse da stimolo per andare avanti: non avevamo ancora un accampamento definibile come tale. Tuttavia potevamo dire, con discreto orgoglio, di esserci.

La nostra partecipazione, con gli anni, ci ha visti crescere. Tanto numericamente (d’altronde, ci voleva ben poco a superare i primi quattro moschettieri), quanto qualitativamente. A Romans, oltre che creste, penne e plumbatae maldestre, ci abbiamo lasciato un pezzo del nostro cuore.

Per noi romani bizantini, più tardi che antichi, non esiste stagione rievocativa definibile come tale senza Romans. In definitiva, è in questo angolo d’Italia che fondano le nostre radici. Ed è qui che abbiamo avuto il piacere di incontrare rievocatori straordinari e persone che consideriamo fraternamente amiche: senza Romans Langobardorum 2016 non avremmo potuto assistere, ad esempio, alla demolizione delle fila imperiali registrata a Spilamberto (con la successiva convinzione che, al di là delle continue epidemie o della spada longobarda, forse fu davvero Bacco a mietere le maggiori perdite tra le file romee).

Un anno particolare

Le attuali restrizioni Covid 19 si sono fatte sentire anche nell’ambito della rievocazione storica. Le misure di contenimento, adottate per limitare il diffondersi dell’infezione virale, hanno spinto molti organizzatori ad annullare e posticipare direttamente all’anno prossimo gli eventi inizialmente previsti per il 2020. Tra di questi, spicca sicuramente Romans: inizialmente prevista per maggio, non ci rimane che incrociare le dita e attendere speranzosi per il prosieguo dell’anno.

Purtroppo, dovendo limitare i nostri spostamenti all’interno del territorio della regione d’appartenenza, noi stratioti del Numerus non possiamo – almeno per quest’anno – vigilare sui confini a groviera delle Alpi orientali, che tanto ci resero indigeste le celebrazioni pasquali.

Se è vero che le invasioni si affrontano con difficoltà, le innovazioni tecnologiche ci permettono, tuttavia, di rimanere vicini pur momentaneamente distanziati. Ed è anche per questo che da bravi romani, incapaci di rimanere inoperosi anche durante una inattività forzata, abbiamo deciso di aprire questo nostro spazio virtuale.

Un blog che parlerà vi parlerà di noi nell’unica maniera in cui siamo capaci di raccontarvi la passione che ci muove per quello che facciamo. Una passione sì antica, ma che comunque nacque a Romans Langobardorum: buon compleanno Numerus, buon compleanno Romans!

[Foto di Martina Cammerata]